Targhetta con rovescio della moneta da 10 [50] cent., 1918
lamina di rame sbalzato, diam. 14,5 cm

Quando nel 1919 nelle tasche della gente inizia a tintinnare una delle monete più famose del regno di Vittorio Emanuele III, i 10 centesimi in rame che i numismatici identificano come tipo Ape, la Grande guerra è terminata da pochi mesi consegnando all’Italia le “terre irredente” e lasciando sul campo 1.240.000 vittime tra militari e civili. La popolazione è appena uscita da una spaventosa tragedia collettiva e già si stagliano all’orizzonte i bagliori del Biennio rosso e dell’avvento del fascismo.

Coniata dalla Regia Zecca di Roma in rame a 950 millesimi, con diametro di 22,50-22,60 millimetri e peso di 5,30-5,50 grammi, la monetina ha il bordo liscio e, complessivamente, è stata prodotta per tutto il periodo 1919-1937.

Al dritto, i 10 centesimi mostrano la testa del re a collo nudo, rivolta a sinistra, con intorno la legenda VITTORIO EMANUELE III RE D’ITALIA. Una fisionomia colta nel pieno della maturità, all’altezza dei ritratti monetali realizzati da Giuseppe Ferraris per Vittorio Emanuele II e da Filippo Speranza sia per Umberto I che per lo stesso “re numismatico”. In basso, lungo il bordo, il nome dell’autore del dritto A. MOTTI, ovvero Attilio Silvio Motti, prolifico e capace artista, capo incisore della Regia Zecca fin dal 1913.

Al rovescio, tutti i cataloghi indicano semplicemente “ape su fiore”; a destra l’indicazione del valore su due righe leggermente sfalsate; sotto la data, a sinistra, segno di zecca “R” e lungo il bordo il nome dell’autore R. BROZZI.

La presente targhetta in lamina di rame sbalzato riprende il tipo dell’esemplare da 10 centesimi ma modificandone l’indicazione del valore in 50 centesimi.

Renato Brozzi vince il concorso bandito dalla Zecca per rinnovare tutti i tipi dei pezzi in metallo, proponendo per il rovescio della moneta da 10 centesimi un’immagine volutamente antieroica, immune da ogni retorica legata alla vittoria nella Grande guerra e tesa piuttosto a richiamare un mondo semplice e una condizione di operosa e serena normalità attraverso un simbolo familiare a tutti gli italiani: l’ape che trae succhi da un fiore avaro come il papavero. È l’unica sua opera a essere stata trasformata in moneta, ma rivela una modellazione e un valore compositivo di eccellente livello artistico.

La bravura di Brozzi si evidenzia nel forte rilievo plastico e nel gioco di curve e di cerchi che l’artista definisce utilizzando l’anatomia dell’ape, il papavero e il suo stelo; la stessa indicazione del valore è collocata in modo inedito, eppure perfettamente leggibile. L’artista, forse perché avvezzo a realizzare piatti a sbalzo e oggetti di forma rotonda, evita la consueta soluzione di collocare il soggetto al centro, con il valore in forma “lineare” e un’iscrizione nell’orlo; al contrario, grazie al suo talento di “animaliere”, realizza un’immagine ravvicinata e così realistica che solo oggi, con opportuni obiettivi fotografici, potremmo ottenere.

Quanto alla scelta del papavero, è anch’essa tutt’altro che casuale e anzi ricca di implicazioni simboliche. Il papavero è un fiore avaro di nettare, e la sua presenza esalta perciò la capacità operosa dell’ape di trarre nutrimento da tutte le piante e di portare loro vita tramite l’impollinazione. Inoltre, per i Greci il papavero era simbolo dell’oblio e del sonno (Morfeo è spesso rappresentato con un mazzo di papaveri in mano), ma anche emblema della consolazione che Demetra, dea della terra, ritrova ogni volta che sua figlia Proserpina ritorna per sei mesi all’anno nel mondo sotterraneo per ricongiungersi al suo sposo Plutone, dio degli inferi. Per i Romani, invece, il fiore era simbolo di Cerere, la divinità corrispondente a Demetra, e come tale compare su varie monete, mentre nel Medioevo veniva associato al sacrificio di Cristo.

Quella dell’ape e del papavero sui 10 centesimi 1919-1937 del Regno d’Italia è dunque un’autentica “parabola visiva”, un messaggio leggibile a tutti sintetizzato in una perfetta composizione artistica e rivolto a quegli italiani usciti dalla Grande guerra poveri, stremati e spesso colpiti da terribili lutti per aver perso uno o più familiari sui campi di battaglia.

Se Attilio Silvio Motti e Renato Brozzi, in quel lontano 1919, ebbero modo di confrontarsi in modo da dare alla moneta da 10 centesimi un’impostazione coerente, non lo sappiamo; forse fu solo il caso (e l’opportuna scelta della Commissione Tecnico Artistica Monetaria della Regia Zecca) a “sposare” i due soggetti, che sarebbero stati tra i più longevi della monetazione di Vittorio Emanuele III, sopravvivendo fin dopo la proclamazione dell’Impero, senza che su di essi apparisse mai alcun segno del potere di Mussolini e del regime fascista.

 

Nel 1919, a guerra appena conclusa, comincia a circolare in un’Italia povera e stremata una delle monete più famose del regno di Vittorio Emanuele III, che sopravviverà fin dopo la proclamazione dell’Impero senza che su di essa mai appaia alcun segno del regime fascista: i 10 centesimi in rame che i numismatici identificano come tipo Ape.

  • Coniata dalla Regia Zecca di Roma in rame a 950 millesimi, la moneta presenta al dritto la testa del re a collo nudo, rivolta a sinistra, con intorno la legenda VITTORIO EMANUELE III RE D’ITALIA. In basso, lungo il bordo, il nome dell’autore del dritto A. MOTTI, ovvero Attilio Silvio Motti, prolifico e capace artista, capo incisore della Regia Zecca fin dal 1913.

  •  Al rovescio, un’ape su un fiore di papavero; a destra l’indicazione del valore su due righe leggermente sfalsate; sotto la data, a sinistra, segno di zecca “R” e lungo il bordo il nome dell’autore R. BROZZI.
  • La presente targhetta in lamina di rame sbalzato riprende il tipo dell’esemplare da 10 centesimi, ma modificandone l’indicazione del valore in 50 centesimi.
  • Renato Brozzi vince nel 1919 il concorso bandito dalla Zecca per rinnovare tutti i tipi dei pezzi in metallo, proponendo per il rovescio della moneta da 10 centesimi un’immagine volutamente immune da ogni retorica legata alla vittoria nella Grande guerra e tesa piuttosto a richiamare un mondo semplice e una condizione di operosa e serena normalità attraverso un simbolo familiare a tutti gli italiani: l’ape che trae succhi da un fiore avaro come il papavero. È l’unica sua opera a essere stata trasformata in moneta, ma rivela una modellazione e un valore compositivo di eccellente livello artistico.
  • La bravura di Brozzi si evidenzia nel forte rilievo plastico e nel gioco di curve e di cerchi che l’artista definisce utilizzando l’anatomia dell’ape, il papavero e il suo stelo; la stessa indicazione del valore è collocata in modo inedito, eppure perfettamente leggibile. Inoltre, forse perché avvezzo a realizzare piatti a sbalzo e oggetti di forma rotonda, evita la consueta soluzione di collocare il soggetto al centro, con il valore in forma “lineare” e un’iscrizione nell’orlo; al contrario realizza un’immagine ravvicinata e così realistica che solo oggi, con opportuni obiettivi fotografici, potremmo ottenere.
  • Quanto alla scelta del papavero, è anch’essa tutt’altro che casuale e anzi ricca di implicazioni simboliche. Il papavero è un fiore avaro di nettare, e la sua presenza esalta perciò la capacità operosa dell’ape di trarre nutrimento da tutte le piante e di portare loro vita tramite l’impollinazione. Inoltre, per i Greci il papavero era simbolo dell’oblio e del sonno, ma anche emblema della consolazione che Demetra, dea della terra, ritrova ogni volta che sua figlia Proserpina ritorna per sei mesi all’anno nel mondo sotterraneo per ricongiungersi al suo sposo Plutone, dio degli inferi.
  • Quella dell’ape e del papavero sui 10 centesimi 1919-1937 del Regno d’Italia è dunque un’autentica “parabola visiva”, un messaggio leggibile a tutti sintetizzato in una perfetta composizione artistica e rivolto agli italiani usciti dalla spaventosa tragedia collettiva della guerra provati nel corpo e nello spirito.

[Visualizza tutti i Video in LIS disponibili]

[Ascolta tutte le audioguide disponibili]